
Il 13 settembre 2022 la giovane curda 22enne Mahsa Amini viene arrestata dalla polizia religiosa a Tehran, dove si trovava con la sua famiglia per fare acquisti, a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo, in vigore dal 1981 (modificata nel 1983 per tutte le donne nel Paese, sia straniere, sia residenti). Dopo essere stata arrestata per aver indossato l’ḥijāb in modo sbagliato (forse considerato troppo allentato) e condotta presso una stazione di polizia, la giovane è in seguito deceduta in circostanze sospette il 16 settembre, dopo tre giorni di coma, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica.
E’ una vicenda dolorosa, che ha dato luogo a una serie di proteste in tutto il paese e fuori. Non ci sembra questa la sede per una disanima approfondita di tale vicenda, ma è innegabile che questa solleva molte problematiche sulla condizione della donna nei paesi musulmani. Noi cercheremo di toccare solo alcuni punti, quelli che emergono con più evidenza, partendo dall’obbligo del velo.
Indossare il velo nel contesto iraniano è sentito come un’insopportabile costrizione, soprattutto per il modo in cui lo si impone. La legislazione iraniana prevede ancora oggi la possibilità che una donna che esce di casa senza velo sia punita a frustate, ma si tratta di una pena ormai piuttosto rara, anche se talvolta praticata. Normalmente, la legislazione iraniana prevede una multa (tra i 50.000 e i 500.000 rial, cioè tra gli 1,5 e i 15 euro) o una pena detentiva che può durare tra i 10 giorni e i due mesi.
Nell’epoca pre-moderna lo ḥijāb in Iran era addirittura vietato. Nel 1936 infatti l’allora regime dello scià Reza Pahlavi aveva emanato un decreto (Kashf-e hijab) che vietava alle donne di indossare il velo e agli uomini imponeva di vestirsi con abiti più occidentali. Per far rispettare questa normativa però, spesso le donne che portavano il velo venivano malmenate.
Cinque anni dopo Reza fu costretto ad abdicare, e gli subentrò il figlio, Mohammad Reza Pahlavi, che abolì il decreto del padre, lasciando piena libertà di scelta a chiunque per vestirsi come desiderato. Tuttavia le donne con il velo venivano comunque discriminate e la libertà di espressione non era certo difesa: chi lo indossava infatti poteva anche essere esclusa dagli incarichi pubblici.
Insomma, all’interno di questo regime il velo iniziò a diventare un vero e proprio simbolo politico, in questo caso contro il regime degli scià che voleva a tutti i costi imporre velatamente un dress code o un codice di abbigliamento più moderno e occidentale. Già qui capiamo che le prime lotte delle donne non sono sul velo in sé, quanto contro il fatto che uno Stato debba decidere come i propri cittadini devono vestirsi.
Nel mondo arabo in generale emergono segnali che vanno nella stessa direzione. La questione del velo assume così un ruolo significativo riguardo alla condizione femminile nel mondo musulmano. E quando si parla di condizione di genere inevitabilmente si fa riferimento alla sfera dei diritto.
Dovremo far riferimento in prima istanza alla giurisprudenza coranica; in secondo luogo dovremo controllare quanto dicono gli aḥadīth, i detti e fatti del Profeta.
Fatta questa verifica, che consiste essenzialmente nel verificare se nel Corano ci sia o meno un riferimento alla costrizione del velo per le donne, entreremo – sia pure di sfuggita- nelle considerazioni che il mondo femminile musulmano (l’altra metà dell’Islam), nelle sue varie sfaccettature, riserva alla questione del velo.
Dal nostro punto di vista l’intera questione si situa in una dimensione di semiotica della religione, che sta dando dei frutti sempre più interessanti in ambito analitico.
Le fonti del diritto islamico
Quando si parla di diritto islamico il primo termine da definire è quello di Shariʿah. Letteralmente significa “via”, “cammino verso la fonte”. Il secondo termine da definire è quello di fiqh. Letteralmente la parola vuol dire “comprensione profonda”. Il lavoro di elaborazione del diritto si fa a partire da una lettura normativa delle fonti al fine di estrarne le prescrizioni giuridiche e di permetterne la classificazione. Quindi, fiqh indica il diritto islamico nel suo complesso. Fiqh (da cui deriva il nome dei giurisperiti: fuqahāʾ) può essere tradotto con il termine di giurisprudenza coranica.
Come viene sottolineato dai religiosi, “la copertura della propria nudità (`Awra) è molto importante nell’Islam, sia per gli uomini che per le donne, e il Qur’an e la Sunna hanno posto molta enfasi riguardo quest’argomento. Possiamo inoltre notare come i vari libri di giurisprudenza islamica (fiqh) discutano nei minimi dettagli le questioni riguardanti l’`Awra degli uomini e delle donne”. Nella terminologia della giurisprudenza islamica, `Awra si riferisce alla zona o parte del corpo che deve essere coperta con indumenti appropriati. Nella lingua è normalmente tradotto con “nudità” o “zona del corpo che deve essere nascosta”.
Qur’an
Il Corano afferma che entrambi, uomini e donne, devono essere vestiti modestamente (33:59-60, 24:30-31; nella traduzione da Ali, 1988, 1126-1127). Però non usa le parole velo, hijab, burka, chador, o abaya. Utilizza le parole jilbāb, dal significato di “mantello” e khumur, dal significato di “scialle”. Questi non coprono il viso, le mani o i piedi. Inoltre, dal III fino al IX secolo le donne pregavano nelle moschee senza velo. Coprire l’intero corpo con burka, chador, e altri capi di abbigliamento è una tradizione e manifesto culturale di una lettura conservatrice del Corano da parte dei mullah, che sono uomini. Non è ciò che il Corano stesso afferma. Corano, II:256, afferma: «Non vi sia costrizione nella religione» (Lā ikrāḥ fī l-dīn)
Il termine jilbāb o jilbaab si riferisce a qualsiasi cappotto lungo e ampio o indumento esterno indossato da alcune donne musulmane. I portatori credono che questa definizione di jilbab soddisfi la scelta coranica per un hijab.
Jilbāb, jubbah o jilaabah è anche conosciuto come chador dai parlanti persiani in Iran e Afghanistan. Il moderno jilbāb copre l’intero corpo. Alcune donne coprono anche le mani con i guanti e il viso insieme a un niqāb. Negli ultimi anni viene spesso inclusa una visiera corta per proteggere il viso dal sole tropicale.
Il plurale di jilbāb, jalabib, si trova nel Corano, versetto 33:59 (Surah Al-Ahzab).
Una traduzione popolare di Yusuf Ali nella traslitterzione araba recita:
Yā ’ay-yuha n-Nabiy-yu qul li’azwājika wabanātika wa nisā’i l-mu’minīna
yudnīna ‘alayhin-na min jalābībihin-na; dhālika adnā an yu’rafna falā yu’dhayn. Wakāna l-lāhu Ghafūra(n) r-Rahīmā(n)
Nella traduzione di Gabriele Mandel, p.213:
O profeta, di’ alle tue mogli, alle tue figlie, e alle donne credenti, che facciano scendere il càmice [jalabib] fino in basso; questo sarà più acconcio perché vengano riconosciute e non vengano offese. Dio è clemente, Misericorde.
Questo è quanto si arguisce dal Corano, che spiega come una donna musulmana deve comportarsi e vestirsi:
‘Di’ ai credenti che abbassino i loro sguardi e preservino la loro castità. E’ più decente per loro. Certo Dio conosce bene ciò che essi fanno. E alle credenti, che esse abbassino i loro sguardi, preservino la loro castità, mostrino dei loro ornamenti soltanto ciò che appare e calino un panno sul seno; e mostrino le loro grazie solo ai propri mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai propri figli, ai figli dei propri mariti, ai propri fratelli, ai figli dei propri fratelli, ai figli delle proprie sorelle, alle loro donne, alle donne che le loro destre possiedono, ai domestici maschi impotenti, ai bambini impuberi che ignorano le parti nascoste delle donne. E non battano coi loro piedi, affinché si sappia ciò che esse nascondono delle loro grazie. Pentitevi davanti a Dio, o credenti, affinché abbiate successo. (Corano 24:30-31)
Ḥadīth
La parola araba Ḥadīth, plurale Aḥadīth, significa tradizione, testimonianza. Le aḥadīth, i detti del profeta, riguardano ogni aspetto della vita umana e contribuiscono ad indicare al credente la strada da seguire per realizzare la volontà divina.
Ḥadīth ha anche un significato molto più importante perché è parte costitutiva della cosiddetta Sunnah, la seconda fonte della Legge islamica (shari’a) dopo lo stesso Corano. Si indicano, infatti, con il termine Sunnah le pratiche del profeta Maometto, ovvero la realizzazione pratica degli insegnamenti divini e delle leggi della religione.
Numerosi aḥadīth che commentano il versetto sopra del Corano (33:59) menzionano il jilbab.
Secondo la testimonianza di Safiyah bint Shaibah: ‘Aisha diceva: ‘Quando (il versetto): ‘Dovrebbero portare il loro jalabib sul collo e sul seno’, è stato rivelato, (le donne) si tagliavano il lenzuolo ai bordi e si coprivano il viso con i pezzi tagliati.’
(Sahih Bukhari, Volume 6, Libro 60, Numero #282)
Ha narrato Umm Atiyya: Ci è stato ordinato di portare fuori le nostre donne mestruate alle riunioni religiose e all’invocazione dei musulmani nelle due feste di Eid. Queste donne mestruate dovevano tenersi lontane dalla musalla. Una donna chiese: “O Messaggero di Allah! Che dire di uno che non ha un jilbab?’. Disse: “Lascia che prenda in prestito il jilbab del suo compagno”.
(Sahih Bukhari, Libro 8, #347)
Mancanza di documentazione storica
Dal momento che non ci sono immagini del jilbab del VII secolo, né alcun indumento sopravvissuto, non è affatto chiaro se il jilbab moderno sia lo stesso indumento di cui si fa riferimento nel Corano. In termini generali, jilbab è un indumento/lenzuolo che viene indossato sulla testa, drappeggiato attorno al corpo e che copre totalmente il corpo della donna.
Alcuni musulmani moderni insistono sul fatto che il jilbab contemporaneo e l’indumento descritto nel Corano e negli hadith siano esattamente gli stessi, e che il Corano quindi richiede al credente di indossare ‘questi’ indumenti. Alcuni studiosi affermano che il velo non è obbligatorio davanti a uomini ciechi, asessuali o gay.
L’Enciclopedia dell’Islam identifica oltre cento termini per parti di abiti, molti dei quali sono usati per ‘velare’ (Encyclopedia of Islam 1986: 745–6). Alcuni di questi e relativi termini arabi sono burqu, ‘abayah, tarhah, bumus, jilbab, jellabah, hayik, milayah, gallabiyyah, dishdasha, gargush, gins’, mungub, lithma, yashmik, habarah, izar. Alcuni termini si riferiscono ad articoli usati solo come coperture per il viso. Questi sono qina, burqu, niqab, lithma. Altri si riferiscono a copricapi che situazionalmente sono tenuti dall’individuo per coprire parte del viso. Questi sono khimar, sitara, abayah o inrrah.
Il costume islamico tradizionale per le donne sembra aver incluso l’abaya, il chador e il burqa, oltre a molte altre forme di abbigliamento e copricapo.
Caratteristiche del velo

Ḥijāb
Il termine ḥijāb, derivante dalla radice ḥ-j-b, “rendere invisibile, celare allo sguardo, nascondere, coprire”) indica qualsiasi barriera di separazione posta davanti a un essere umano, o a un oggetto, per sottrarlo alla vista o isolarlo. Acquista quindi anche il senso di “velo”, “cortina” o “schermo”.
Di norma, però, il termine ḥijāb viene usato in riferimento a un particolare capo di abbigliamento femminile, il velo islamico, e in particolare a quella foggia di velo che adempie almeno alle norme minime di velatura delle donne, così come sancite dalla giurisprudenza islamica. In questa voce, perciò, si farà riferimento in generale al tema della velatura delle donne nell’Islam.
Khimar
Il khimar è un mantello che copre dalla testa in giù, in alcuni modelli fino a sotto i fianchi, altri fino alle caviglie; a seconda della tradizione locale può avere un velo che copre anche il viso.

Jilbab
Il Jilbab è un lungo abito che copre completamente il corpo della donna. Oggi si usa come sinonimo di abaya.
Altri veli da menzionare sono, oltre lo abaya, che vedremo più avanti, l’al-amiri, cuffia stretta e aderente unita a uno scialle da indossare attorno la testa e lo shayla, lunga sciarpa rettangolare da mettere attorno al capo.
Vicino Oriente e in Egitto
Niqāb
Il niqāb è un velo presente nella tradizione araba preislamica e in quella islamica, che copre l’intero corpo della donna, compreso il volto, lasciando scoperti solo gli occhi.

Il niqāb è suddiviso in altri due veli quello saudita e quello yemenita. Il primo è un copricapo composto da uno, due o tre veli, con una fascia che, passando dalla fronte, viene legata dietro la nuca. Il secondo è composto da due pezzi: un fazzoletto triangolare a coprire la fronte (come una bandana) e un altro rettangolare che copre il viso da sotto gli occhi a sotto il mento.


Abaya
Abaya (Golfo Persico), un abito lungo dalla testa ai piedi, leggero ma coprente, lascia completamente scoperta la testa, ma normalmente viene indossato sotto ad un niqāb.



Veli diffusi in Iran
Chador
Il chador è generalmente nero, indica sia un velo sulla testa, sia un mantello su tutto il corpo.

Afghanistan
Burqa

Il burqa è per lo più azzurro, con una griglia all’altezza degli occhi, copre interamente il corpo della donna e assolve più tardi le funzioni del niqab e del khimar.

Il velo in Italia
In Italia il velo a copertura del volto sarebbe vietato ai sensi dell’art. 5 della legge n. 152/1975: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”. Tuttavia l’articolo specifica che il divieto è connesso alla mancanza di un “giustificato motivo”, e la sentenza del Consiglio di Stato n. 3076 del 19 giugno 2008, riconoscendo che il velo è l’ “attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture”, ha stabilito la legalità del burqa (e implicitamente anche del niqab) in quanto “non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento”.
Femminismo islamico

Come mai il velo ferisce tanto lo sguardo degli europei? Si chiede Bruno-Nassim Aboudrar nel suo libro (Aboudrar 2015). Il velo non nasce musulmano ma lo diventa. Il Corano lo menziona appena. La storia che mette capo all’obbligo di indossarlo è lunga e complessa e al suo interno l’epoca del colonialismo costituisce una tappa decisiva. Se il velo ci traumatizza non è tanto perché offende la dignità delle donne o viola il principio della laicità quanto perché stravolge un ordinamento visuale fondato sulla trasparenza e vi contrappone una provocatoria esaltazione dell’occultamento e della segretezza.
Bisognerebbe però fare uno sforzo per capire come le donne musulmane vivono l’indossamento del velo dall’interno del loro mondo, cercando di seguire quello che affermano e scrivono le intellettuali che si sono poste con più consapevolezza il problema, le aderenti al femminismo islamico.

Un primo dato cui dobbiamo far riferimento è il fatto che in Occidente si sa pochissimo di questo fenomeno. “La storia delle battaglie delle donne nel mondo islamico ha radici profonde, ma in Occidente è pressoché sconosciuta, e anche nei paesi in cui si è sviluppata fatica a essere considerata come parte integrante della costruzione delle identità nazionali e dei processi di sviluppo” (Pepicelli 2010: p.12).
In secondo luogo, la scoperta di due anime del femminismo islamico. “Questo fenomeno ha al suo interno due anime: una teologica, che si propone una lettura dei testi sacri dell’Islam in chiave innovativa; una movimentista, che spesso si concreta nell’adesione a ONG o ad altri tipi di associazione che lottano a diversi livelli per l’affermazione dei diritti femminili” (Vanzan 2013: p.149).
E’ stato sottolineato (Giuseppe Rizzardi) che sono tre le questioni dibattute dal femminismo islamico: 1) la questione donna non è un capitolo secondario del processo di cambiamento strutturale dell’islām, da un modello strutturalmente maschilista ad un modello ‘misto’ (uomo-donna); 2) la questione donna va di pari passo con il processo di secolarizzazione dell’islām che prevede un rinnovamento dell’antropologia islamica sottratta dall’unica matrice religiosa; 3) la ferma intenzione di ripensare il modello femminista all’interno del sistema culturalecivico-religioso dell’islām, muovendo molta critica ai modelli occidentali.
Il velo, in entrambe le correnti, è considerato un segnale importante, il segno che rimanda a un significante rappresentato dalla condizione femminile. Come ha potuto scrivere la studiosa Renata Pepicelli, attorno alla questione del velo infuria un dibattito molto acceso sia nei paesi musulmani sia in quelli occidentali. Chi lo indossa vede in esso l’espressione della propria identità religiosa e culturale e, in alcuni casi, politica; chi lo critica lo considera un ritorno al passato, la prova evidente del diffondersi di un islam oscurantista e misogino. In Occidente, dove è sempre più frequente incontrare donne velate, quest’indumento rappresenta spesso l’emblema della sottomissione femminile e del rifiuto ad integrarsi.
Dovremo seguire attentamente il dibattito nel mondo musulmano per capire l’evoluzione degli atteggiamenti e delle mentalità. Fino a metà del secolo scorso il confronto della condizione delle donne con il mondo occidentale si poneva a un livello molto diverso. Anche in Occidente permanevano usi e costumi legati alla tradizione. Oggi, con la globalizzazione, è veramente difficile non accorgersi che la condizione delle donne in Occidente è radicalmente mutata. Immagini e storie rimandano a una libertà di costumi inimmaginabile nella prima metà del secolo scorso. E il confronto potrebbe pesare. D’altronde proprio questo è un argomento addotto dai tradizionalisti, che il paragone con l’Occidente snaturerebbe la natura intima della tradizione islamica.
Antonio De Lisa
Diritti riservati
BIBLIOGRAFIA
Fonti
Il Corano, introduzione, traduzione e commento di A. Bausani, Sansoni, Firenze 1978.
Il Corano, introduzione di Khaled Fouad Allam, traduzione e apparati critici di Gabriele Mandel, UTET, Torino, 2006.
[Bukhari 1982]
Bukhari, Detti e fatti del Profeta, a cura di S.Noja-M.Vallaro-V.Vacca, UTET, Torino 1982.
Vite e detti di Maometto, introduzione generale di Alberto Ventura, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2014.
Encyclopaedia of Islam
https://referenceworks.brillonline.com/browse/encyclopaedia-of-islam-3
Letteratura secondaria
[Aboudrar 2015]
Aboudrar, B.-N., Come il velo è diventato musulmano, Raffaello Cortina, Milano 2015.
[Pepicelli 2010]
Pepicelli, R., Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, Roma 2010.
[Pepicelli 2012]
Pepicelli, R., Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica, Carocci, Roma 2012.
[Mernissi 1994]
Mernissi, F., Dreams of Trespass: Tales of a Harem Girlhood (tr. it. La terrazza proibita, Giunti, Firenze 2007)
[Vanzan 2013]
Vanzan, A., Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici, Bruno Mondadori, Milano 2013.
Sitografia
Mufti Muhammad Ibn Adam al-Kawthari, Il Fiqh del Coprire la Propria Nudità (`Awrah): una Spiegazione Dettagliata, https://sunnita.wordpress.com/fiqh/tematiche-femminili/il-fiqh-del-coprire-la-propria-nudita-awra-una-spiegazione-dettagliata/
Filmografia
La bicicletta verde del 2012, scritto e diretto da Haifaa Al-Mansour, prima regista donna dell’Arabia Saudita.
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