Platone
Enrico Berti, I miti in Platone
(Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche)
Io vedo tre diverse funzioni attribuite da Platone al mito. Una direi è la funzione propriamente filosofica, l’uso filosofico del mito, cioè il mito, vale a dire il ricorso a immagini, serve per illustrare più efficacemente il significato di dottrine che possono anche essere conosciute per mezzo di concetti; penso ad esempio al famoso mito della caverna con cui nel Settimo Libro della Repubblica si illustra il processo della conoscenza attraverso vari gradi; di per sé in questo caso il ricorso al mito non è indispensabile, perché questo processo può venire descritto anche per mezzo di concetti, tuttavia per renderlo più comprensibile, per esprimersi più efficacemente Platone ricorre al mito che in questo caso però ha soltanto il valore di una allegoria, di un paragone, di un’immagine, per questo io parlo dell’uso filosofico; qui il mito non è che un discorso che espone attraverso immagini un contenuto propriamente filosofico.
C’è poi un uso che chiamerei meta-filosofico del mito, cioè il mito usato per alludere a qualche cosa che va oltre le capacità della filosofia, che sta per così dire al di sopra, al di là della filosofia, per questo lo chiamo meta-filosofico, ad esempio il destino delle anime dopo la morte. Secondo Platone questo non è oggetto di conoscenza filosofica, non è possibile dire con certezza quale sarà questo destino. Tuttavia è necessario in qualche modo immaginarcelo e questo ci è consentito dal mito. Il mito in questo caso è un discorso che va oltre la filosofia, che non è filosofico, che è rischioso quindi, che può anche non essere vero, ma è un rischio come dice Platone nel Fedone, che deve essere corso, un rischio che è bello. Di questo tipo sono i miti appunto delle anime nel Fedone e il mito di Er nella Repubblica. E infine c’è un terzo uso del mito che io chiamerei pre-filosofico o infra-filosofico ed è appunto quello del Timeo, e cioè laddove si ha a che fare con oggetti che non sono suscettibili di conoscenza rigorosa, di conoscenza scientifica, ci si deve accontentare di un discorso verosimile, qual è appunto il mito, proprio perché siamo ad un livello inferiore rispetto a quello della filosofia, il livello del mondo sensibile.
Quindi c’è un mito filosofico, un mito che va oltre la filosofia, e un mito che resta al di sotto, al di qua della filosofia; poi naturalmente ci sono anche altri miti in Platone; in genere egli riferisce anche miti che non esprimono il suo effettivo modo di pensare, mi viene in mente nel Simposio il mito narrato dal personaggio di Aristofane circa l’origine dell’amore e il fatto cioè, che inizialmente il maschio e la femmina sarebbero stati uniti in un solo individuo, successivamente furono separati, ma da allora conservarono una attrazione reciproca; questa è un’immagine molto suggestiva per spiegare una dottrina che in Platone a questo livello non ha ancora un significato per la sua filosofia.
Giordano Bruno
Nei dieci dialoghi che compongono l’opera De gli eroici furori, pubblicati a Londra nel 1585, Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza, quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze sono espressione di un furore di poco valore, un «furore basso»; il desiderio di una vita volta alla contemplazione è l’espressione di un «furore eroico», con il quale l’anima, «rapita sopra l’orizzonte de gli affetti naturali […] vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».
Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti devozionali, con «aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani» ma, al contrario, con il «venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch’egli medesmo esser non si possa, come quello che è anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che Bruno assimila a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene esso stesso preda, come Atteone che, avendo visto la bellezza di Diana, si è fatto preda dei cani, i «pensieri de cose divine», che lo divorano «facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia, onde più non vegga come per forami e per foreste la sua Diana ma, avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri, che […] fanno vedere e apprendere in confusione. Vede l’Anfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte ragioni, che è la monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se no la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede ne la sua genitura, che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo».
La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un «furore eroico» che ci assimila alla perenne e tormentata «vicissitudine» in cui si esprime il principio che anima tutto l’universo.
(Wikipedia)
Friedrich Schelling
Alla fine del suo itinerario filosofico Schelling arriva al mito. Egli afferma che i miti non sono favole senza senso, ma l’espressione di una verità primordiale e quindi profonda. L’uscita dell’uomo dalla quiete, cioè dal paradiso originario, è l’oggetto specifico dei racconti mitici e l’inizio della storia.
Ricollegando l’inizio del processo mitologico a questo che è il primo di tutti gli avvenimenti, a questa catastrofe originaria della coscienza umana, noi spieghiamo nello stesso tempo il processo mitologico come un destino universale, al quale proprio perciò era soggetto l’intero genere umano. La mitologia non è nata da presupposti accidentali, empirici, per esempio invenzioni di singoli poeti o filosofi cosmogonici, che ci si permette di trasferire nei tempi piú antichi, neppure da confusioni o fraintendimenti casuali: essa si perde, con le sue piú lontane radici, in quel fatto originario o piuttosto in quell’atto immemorabile, senza del quale non ci sarebbe in generale storia alcuna. Infatti la storia, in quanto è un nuovo mondo del movimento, non avrebbe certo potuto esser posta se l’uomo non avesse mosso e scosso di nuovo quel fondamento della creazione mercé il quale tutto doveva pervenire alla quiete e ad uno stato eterno. Senza un’uscita dal paradiso originario non ci sarebbe storia: è per questo che quel primo passo dell’uomo è il vero avvenimento originario, l’avvenimento che solo ha reso possibile una successione di altri avvenimenti, cioè la storia.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, pag. 328
Bibliografia:
F. Schelling, “Clara”, a cura di G. Moretti
(Zandonai, 2009)
F. Schelling, “Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo
antichissimo”, a cura di F. Forlin
(Mimesis, 2009)
F. W. J. Schelling. Filosofia della rivelazione, II
D. Sisto, “Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della
natura”
(AlboVersorio, 2009)
Categorie:B40.02- I segni della mente
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